La mostra "Un Tempio per l'Eternità"- Tempio Canoviano di Possagno

Risultati immagini per La mostra "Un Tempio per l'Eternità"- Tempio Canoviano di PossagnoCon introduzione del Presidente di Fondazione Canova Vittorio Sgarbi e del Direttore della Gypsotheca e Museo Antonio Canova Mario Guderzo


La mostra "Un Tempio per l'Eternità" inaugurerà in occasione degli Anniversari Canoviani promossi da Opera Dotazione del Tempio Canoviano di Possagno insieme a Fondazione Canova onlus e al Comune di Possagno per celebrare i 200 anni dalla posa della prima pietra del Tempio di Possagno, primo passaggio delle celebrazioni che si concluderanno nel 2022, bicentenario della morte del grande artista neoclassico.
La Chiesa è un esempio di architettura capace di riunire l’antica Grecia all’Impero romano attraverso il Partenone ed il Pantheon. Incisioni, dipinti e sculture permetteranno di confrontarsi con questa realtà, un esempio di architettura neoclassica collocato ai piedi delle montagne della Pedemontana del Grappa. Un modello ligneo in scala, faciliterà la visione dell’edificio che in questi tempi diventerà l’architettura celebrativa dei 200 anni canoviani.
  
“E’ mio divisamento, di seguire, nell’esecuzione di questa opera, l’esempio di qualche illustre e famigerato monumento, senza porvi nulla di altrui invenzione. E venendo al particolare, dissi che avrei eletto per il portico di sei colonne, le proporzioni del tempio con portico dorico riportato dallo Stuart, che si crede un resto del tempio dedicato a Roma e ad Augusto”
Antonio Canova a Giannantonio Selva, 5.VIII.1818
 
L’11 luglio del 1819 Antonio Canova è a Possagno per la cerimonia della posa della prima pietra del Tempio: la nuova chiesa parrocchiale che aveva voluto far erigere a proprie spese per il suo paese natale.
Fu un evento solenne immortalato da Johann Anton Pock in un piccolo dipinto, conservato a Parma nella Collezione Magnani Rocca. Lo Scultore, però, non avrà la possibilità di vedere ultimata questa sua opera, morirà, infatti, a Venezia il 13 ottobre 1822. Sarà compito del fratello, monsignor Giovanni Battista Sartori Canova, portare a termine la costruzione del solenne edificio. Il tempio verrà consacrato soltanto dieci anni dopo, nel 1832.
Nel 1833 sarà pubblicato, a cura dell’editore veneziano Giuseppe Antonelli, un volume in formato atlantico, voluto dal fratello dello Scultore, che illustra e descrive il Tempio canoviano. Un’opera esemplare con illustrazioni ed uno scritto di Melchior Missirini, uno dei biografi del Canova.
Abbandonata l’idea di restaurare l’edificio decadente della Chiesa parrocchiale del paese di Possagno, ma soprattutto convinto della necessità di lasciare un segno indelebile nella sua terra natale, Canova immagina un connubio ‘storicistico’, associando la classicità greca alla praticità romana. Già convinto che della sua arte nulla sarebbe stato lasciato al suo paese natale, convinzione tra l’altro poi stravolta dal volere del fratello, procede spedito, forte degli studi di estetica praticati con la lettura di Winckelmann, di Mengs, di Hamilton, di Quatremère de Quincy e di Cicognara, verso l’idea vincente di associare Partenone e Pantheon, emblemi dell’architettura classica. I disegni del progetto sono realizzati da Pietro Bosio mentre Giovanni Zardo dirige il cantiere affrontando ogni problematica connessa all’impegnativa costruzione. Tutta la comunità di Possagno, anzi tutta la Pedemontana è coinvolta in questo progetto. Canova aveva sottolineato che “I materiali minuti per tutti i muramenti che non ammettessero pietra o marmo, sarebbero somministrati dal Comune; la sabbia grossa e la calce, fino alla perfezione dell’edificio, sarebbero a carico di Possagno”. Spettava allo Scultore, invece, fornire materiali avulsi dal territorio e avrebbe mantenuto a busta paga ben 250 operai oltre agli addetti al trasporto e agli animali da tiro. Definita da Missirini una “salomonica impresa”, l’edificazione del Monumento è realizzata, secondo il volere dell’artista, con i materiali forniti dal territorio, ma grazie ad essa si costruiscono strade, carri, slitte, macchine per il sollevamento dei materiali.
Il Tempio rappresenta la sintesi della creatività artistica e della profonda ispirazione religiosa del grande scultore. Per Quatremère de Quincy “il Tempio è la maestosa teca delle sue ultime sculture di tematica religiosa: profeti, martiri, apostoli e brani biblici”.
L’intento di Canova non era solo quello di costruire una nuova chiesa parrocchiale, ma anche di collocare al suo interno la colossale statua della Religione, il cui modello è ora esposto nell’aula della Gypsotheca. Secondo le nobili finalità, manifestate negli ultimi anni della sua vita e confermate sul letto di morte, il Tempio e il gesso della Religione sarebbero stati uniti insieme a glorificare Dio.
I modelli di riferimento erano stati il Partenone di Atene, la Rotonda di Agrippa a Roma e i templi di Paestum.
La visione d’insieme della struttura permette di distinguere nettamente tali riferimenti: innanzitutto una doppia serie di colonne doriche sorregge una trabeazione e costituisce lo spazio antistante il corpo rotondo, a base quadrata, coperto da una cupola emisferica; il pronao del tempio riprende con precisione filologica proporzioni e accorgimenti prospettici del Partenone ateniese; la struttura circolare e la cupola, invece, sono derivati dal Pantheon. Sulla trabeazione le metope rappresentano episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento: La creazione del Mondo, La creazione di Adamo, Caino e Abele, il Sacrificio di Isacco; L’Annunciazione, La Visitazione e la Presentazione di Gesù al Tempio. I bassorilievi originali sono, invece, collocati all’interno, tra gli altari.
E’ evidente che alcune forme geometriche, come il triangolo, la sfera ed il cilindro assemblati, permettano al Canova la realizzazione di un gioco d’architettura raffinato nelle proporzioni. In questi termini si riconosce l’assoluta fedeltà ai principi neoclassici che costituiscono l’espressione della sua “religione estetica” il cui risultato è una struttura solenne e maestosa.
Le pareti sono rivestite da lastre di pietra lavorata; la cupola a rosoni dorati simboleggia il firmamento; al centro il lucernario permette al sole di penetrare nell’ampio spazio portando la luce all’interno.
 L’altare maggiore è collocato nella vasta abside. Sull’altare è posta la grande Pala con Il compianto di Cristo, dipinta da Canova a Possagno nell’estate del 1799. Nella tela è rappresentato Dio-Padre come il sole, la luce contro la notte. La Madonna, atteggiata come madre di Misericordia, riprende nel suo gesto quello del Padreterno. E’ lei ad unire lo spirito al sentimento, il divino all’umano. Giuseppe d’Arimatea, la Maddalena, Maria, l’apostolo Giovanni, Maria di Cleofa e Nicodemo circondano la figura del Cristo: “Un andamento continuo, senza drastiche interruzioni, risolve le inevitabili connotazioni drammatiche”. All’interno del Tempio, sulla sinistra, è collocata la tomba dell’artista con l’Autoritratto del 1812 e il Ritratto del fratello, opera di Cincinnato Baruzzi.
Il sarcofago, realizzato dal Canova quale sepolcro per il marchese Francesco Berio di Napoli, era rimasto depositato presso lo studio di Roma e, dopo la sua morte, fu fatto completare dal Sartori che, in seguito, lo trasferì a Possagno per raccogliere le spoglie dell’amato fratello universalmente definito il “Cantore della bellezza eterna”.
Giovanni Battista Sartori Canova, il 12 ottobre del 1822, al cospetto dello Scultore sul letto di morte, era stato nominato erede generale ed esecutore testamentario ricevendo, così, l’onere e l’onore di “continuare. 
Compiere ed abbellire in ogni sua parte, senza il menomo risparmio, e nel più breve tempo possibile, il Tempio di Possagno”. Canova era riuscito a vedere i lavori appena iniziati nel 1822, poco tempo prima di abbandonare la sua vita terrena.
Oggi a chi arriva a Possagno la chiesa appare come una gigantesca e straordinaria testimonianza attraverso la quale Antonio Canova manifesta ancora l’amore eterno verso la sua Terra natale.
(Per approfondimenti: G. Romanelli, Il Tempio canoviano, in Antonio Canova, Venezia, Marsilio, 1992, pp. 347-353)

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